Alessandra Morelli e il suo invito a riscoprire la responsabilità reciproca, attraverso l’arte della cura e dell’accoglienza.
Pietro Romeo
Si chiama Kintsugi, o Kintsukuroi la tecnica giapponese di riciclo e valorizzazione degli oggetti rotti: i cocci vengono ricongiunti dando all’oggetto una veste del tutto nuova, lucente e preziosa, restituendo, tramite la cura meticolosa e appassionata, dignità e nuova vita a ciò che prima era considerato rotto quindi uno scarto. Parte da questa metafora la riflessione che Alessandra Morelli (che è stata per trent’anni funzionaria dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati), ci restituisce nel suo libro Verso un’economia della Cura – Arte per restare umani. Domenica 9 febbraio lo ha presentato alla chiesa battista di Rivoli, davanti a una platea numerosa e attenta, che ha potuto ascoltare da una voce autorevole come la sua l’importanza di contrastare un’“ideologia fortemente individualista e di profitto personale, che ci rende inconsapevoli della nostra interdipendenza”, come leggiamo nella sinossi affidata al risvolto di copertina. Leggiamo, sempre, nella sinossi: “L’idea che l’uomo sia un’isola e costruisca il suo io in modo indipendente è un abbaglio, perché la persona umana è parte di una comunità sociale e politica, pur conservando la propria unicità spirituale. La vita è un viaggio comunitario premuroso: ecco perché l’«economia della cura» è un urgente invito a un cambio di prospettiva e di postura dell’esserci”. Ed è di questo «esserci» di questa postura che ci ha parlato, utilizzando continuamente la parola «umano»: né uomo, né donna, né umanità, ma un ritorno urgente all’umano, tenendo di conto che il disumano può essere sempre presente nell’umano.
La cura è l’altra parola che permea il messaggio che Morelli vuole insistentemente trasmettere, portando avanti quella passione che ha caratterizzato il suo lavoro per trent’anni: occuparsi delle persone ultime. Del resto, dice, tutta l’opera di Gesù è basata sulla cura dell’altro, soprattutto dell’ultimo.
Altri concetti hanno echeggiato insistenti nella sua presentazione, come quello della «parola», ovvero il luogo dell’umano, l’unica via per la soluzione dei conflitti, unica via che può togliere potere alle armi. E poi l’ascolto, quello reale, come chiave per la cura dell’altro.
Ma anche ospitalità e accoglienza: altro concetto dal quale ci stiamo pericolosamente allontanando: basti vedere criminalizzazione dei flussi migratori e la loro mistificazione in termini di numeri per farli sembrare un’invasione. E qui, di nuovo, la Bibbia non può che confermare il concetto, quindi cita il profeta Isaia, al capitolo 54: «Allarga il luogo della tua tenda, si spieghino i teli della tua abitazione, senza risparmio».
Il nostro compito di credenti in primis, ma anche di coloro che vogliono appartenere all’«umano» è quello delle sentinelle o custodi l’uno dell’altra. Dobbiamo – dice Morelli – “decainizzarci” ovvero rigettare le parole di Caino: “sono forse il custode di mio fratello?”. La risposta è “sì”: tornare all’umano significa capire che sono io e non altri il custode di mio fratello, di mia sorella.
