Helene Fontana
GEREMIA 31:31-34; EFESINI 3:14-21
Come sanno i genitori che hanno figli in età scolastica (gli altri forse non lo sanno), ogni settembre, quando inizia la scuola, i genitori ed i figli devono firmare con la scuola un così detto “patto di corresponsabilità”. Di cosa si tratta? Si tratta di un documento in cui sono specificati i doveri e le responsabilità di scuola, genitori e figli, che questi tre soggetti si impegnano a rispettare.
Ultimamente si è parlato molto della situazione della scuola, in particolare del problema del bullismo. E come novità si scopre che questo problema adesso non riguarda più soltanto i rapporti tra gli studenti, ma che accadono anche atti di bullismo e di violenza da parte degli studenti o dei loro genitori nei confronti degli insegnanti. I commentatori dicono che si è rotto il patto educativo tra scuola e famiglia.
Insomma, le belle parole del patto di corresponsabilità rimangono spesso sulla carta. Si potrebbe fare una lunga discussione sul perché: il mancato riconoscimento dell’autorità di figure come genitori ed insegnanti, l’abitudine di dover avere tutto subito e senza sacrifici, la mancanza di regole nelle famiglie … Qui ci limitiamo a costatare che gli impegni e le regole che si sottoscrivono nel patto di corresponsabilità dai più non vengono fatti propri, si conoscono (se si legge il patto …) ma non sono condivisi, chi li firma non se ne fa carico. Sottoscrivere è una formalità che non incide sui reali rapporti scuola-genitori-studenti.
Del fare proprio un patto parla anche il testo che stamattina abbiamo ascoltato dal libro del profeta Geremia. In questo testo Dio ricorda il patto che aveva fatto con il popolo d’Israele su Monte Sinai, dopo l’uscita dalla schiavitù in Egitto. Un patto che prevedeva dei diritti e dei doveri per le due parti che lo stipulavano: Israele prometteva di avere Dio come unico Signore e di seguire i suoi comandamenti; Dio si impegnava ad essere il loro Dio, a proteggerli e a prendersi cura di loro.
Dio, però, per bocca di Geremia ricorda che questo patto non è stato rispettato da parte di Israele. Lo leggiamo nell’Antico Testamento: Israele, pur conoscendo i termini del patto, ha fatto fatica ad essere fedele a Dio, ha seguito altri dei, non ha rispettato i suoi comandamenti. E’ come se avesse “firmato” il patto con Dio senza veramente fare proprio ciò che esso prevedeva. I comandamenti a volte “rimanevano sulla carta”, venivano intesi come imposizioni dall’alto (nel vero senso della parola …) che non corrispondevano agli interessi di chi li doveva eseguire, o semplicemente come parole che non avevano una vera incisione sulla quotidianità delle persone, che non era realistico pensare potessero funzionare nella vita reale. Ed in questo suo ragionare, in questa sua infedeltà – lo riconosciamo – Israele è stata immagine di tutti noi e delle nostre mancanze nel rapporto con Dio.
Ma Dio dal canto suo non è venuto meno al suo impegno. E’ rimasto il Signore d’Israele. E qui nel nostro testo del libro di Geremia leggiamo che desidera voltare pagina nel rapporto con il popolo. Perciò dichiara attraverso il profeta che perdonerà Israele e farà un nuovo patto con lei. E questa volta non si tratterà di leggi e regole arrivate “dall’esterno” a cui cercare di attenersi senza troppa convinzione e con molta fatica; questa volta la legge, dice Dio, “la metterò nell’intimo loro, la scriverò sul loro cuore, e io sarò loro Dio, ed essi saranno mio popolo … Tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande”.
Questa volta, allora, il patto sarà davvero condiviso, Israele lo farà proprio (come dice l’immagine del cuore). Tutti conosceranno Dio, non solo per sentito dire o nel senso che sanno dal punto di vista intellettivo cosa prevede il patto, ma nel senso che lo conosceranno per esperienza, avranno fatto esperienza del suo perdono, della sua grazia, del suo amore. E questa esperienza renderà la legge non più un obbligo pesante oppure parole staccate dalla realtà, ma un progetto condiviso che fa parte dell’essere stesso d’Israele e di ogni suo componente.
Di una conoscenza che non è solo intellettiva o teorica, ma che si basa sull’esperienza e che diventa davvero parte di noi parla anche la lettera agli Efesini. Si tratta di nuovo della conoscenza di Dio, ma con qualche precisazione importante rispetto a quanto avevamo letto da Geremia. O forse meglio, ciò di cui leggiamo nella lettera agli Efesini si presenta come un compimento della profezia di Geremia, perfino superando la visione dell’antico profeta. Infatti le parole dell’apostolo non sono rivolte soltanto al popolo d’Israele, ma ad ogni famiglia, ogni popolo della terra, perché con l’avvento di Cristo a tutti è stata data la possibilità di far parte del popolo di Dio. E a tutti l’apostolo augura che Dio faccia abitare la sua Parola nel loro cuore. Una Parola che non è una legge, ma che è il compimento della legge, è Cristo stesso che testimonia l’amore di Dio per noi.
Cosa vuol dire che Cristo abita nei nostri cuori? Il significato è simile a quello che abbiamo scoperto soffermandoci sulle parole di Geremia che parlavano della legge di Dio scritta nel cuore del suo popolo. Si tratta di un’esperienza diretta, personale. Di qualcosa che abbiamo fatto proprio. Che condividiamo perché sappiamo che è giusto, buono.
In questo caso, della lettera agli Efesini, ciò di cui abbiamo fatto esperienza diretta è l’amore di Dio che abbiamo incontrato in Gesù Cristo. Un amore che cambia la nostra vita e che diventa la linea guida per le nostre relazioni, le nostre decisioni, ciò che facciamo. Non perché siamo obbligati o costretti, non per abitudine o senso del dovere – per cui appena abbiamo la possibilità facciamo invece di testa nostra – ma perché sappiamo dall’esperienza nostra personale che è la cosa giusta da fare. Certo, le resistenza e le infedeltà non scompaiono, ma l’apostolo è fiducioso: Dio sa fare infinitamente di più di quel che domandiamo o pensiamo, lui ci fortificherà e ci colmerà della sua pienezza.
La fede è un patto tra noi e Dio. E un patto “funziona” soltanto se è condiviso, se è fatto proprio, altrimenti non serve a niente. Ecco perché crediamo che in questioni di fede ognuno di noi deve fare la propria esperienza e prendere le proprie decisioni di conseguenza. In modo che la conoscenza di Dio sia davvero una conoscenza “a tutto tondo”, che coinvolge l’esperienza, la ragione, le emozioni, che indirizza i nostri pensieri, le nostre parole e le nostre azioni, e che ci aiuta a stringere e rispettare patti di solidarietà e di rispetto anche con le persone che ci stanno intorno. Testimoniando e dando forma concreta anche in questo modo alla larghezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità dell’amore di Cristo. Amen.