Il mio sì alla Grazia

Interrogarsi sulla propria vocazione è domanda – e di conseguenza molte – irrisolta e inquieta, un costringersi a percorsi inediti che nell’intimo si sperano felici. E se difficilmente ci si sente Geremia o un Mosé balbuziente, con quella chiamata così forte e palese ma anche con una rassicurazione pronta a sorreggere, essa è anzitutto contro noi stessi e per noi stessi. Eppure pensare soltanto a sé quando si tenta di discernere quanto sia stato disposto per noi (verbo antico, ma quello è rimasto e conserviamolo) rischia l’errore di prospettiva: nell’altro trovo senso e fine della mia chiamata, e se non origine quasi sempre pure il suo tramite. Dunque posso cercarla ma non vederla in me, e forse il mio prossimo in questo m’aiuta, anche se poi chi stabilisce che la chiamata che mi rivolgono fratelli e sorelle sia davvero la mia? E dunque ne so di meno di cosa sia. So che essa mi spinge in avanti ma la riconosco solo guardandomi indietro, cercando come in filigrana la ragione d’un percorso. So che se osservo dove sono in questo momento, ovunque io sia, è facile che già questa sia la mia chiamata e tanto dunque mi dovrà bastare (perché ho visto scalpitare per una vocazione, e non vedere che il posto in cui stai è già la tua). So qualcosa e non so niente di questa vocazione: parente della libertà del cristiano, certezza di un credente con la schiena dritta, trova corso solo nel servizio. Se non c’è altro spazio per la libertà che l’amore, allora quella è la mia vocazione. Mia e di tutti, chiaro. Ma dunque la mia? Dove sta la mia di vocazione? Dove rintracciarla? Armonia nella vita è la chiamata, direbbe Calvino, limite alla bruciante inquietudine dell’intelletto umano, la sua coscienza dà di resistere al male e al malvagio, al tiranno e alle mie ombre: pagine d’una modernità sconvolgente, e se la modernità non fosse purtroppo finita potrei averne quasi una risposta ultima. Eppure a quella modernità siamo cresciuti e la difendiamo tenacemente, ma nello stesso istante non ci basta più, il tutto non ci torna più, non certo per la psicanalisi o per la precarietà lavorativa soltanto, ma perché fatichiamo a dire il «contro noi stessi» al nostro vicino (magari ancor dicendolo a noi medesimi, che non possiamo fare altrimenti), e ben sapendo che un’insopprimibile istanza di felicità potrebbe squadernare pure la nostra vita, anche se forse non possiamo accettarlo. E poi che ne sappiamo se non sia tutto troppo ambizioso, non solo pensare di poterla aver chiara la nostra vocazione, ma pure il dire che siamo meno illusi di decenni fa, forse si e forse no, e certo il bisogno di consolazione in vita e in morte rimane lo stesso nelle generazioni, come la risposta su chi sia tale consolazione. Ma più di altre generazioni ci è dato di imparare a distinguere tra vocazione e bisogno di rassicurazioni (tutte nostre e tutte solo per noi), tra consapevolezza della chiamata e ansie di controllo, per non parlare di quelle anticipatorie, forse smettendo di fare del compito che ci è imposto un merito, e pur ricordandoci che ci è imposto. Già, perché senza dubbio so che la vocazione è una tentazione fortissima per far rientrare le opere dalla finestra una volta cacciate per grazia dalla porta, un modo per attribuire a me e non a Dio la fedeltà. Che una chiamata in un contesto precario sia anche un modo più chiaro per dire non a me ma a te Signore? Eppure come annunciare in termini di vocazione a chi un senso non vede, come poter parlare oggi di lavoro come vocazione non solo se lavoro non c’è ma quando è sminuzzato, tanto che la vocazione non rischia più di diventare la vecchia narrazione del dominio sull’altro (perché pure questa è stata) ma uno sberleffo fuori moda sì (perché vai ad arzigogolare sul senso interiore della chiamata al di là del come si esplica contrattualmente, ma il dolore del non senso sbarrerà ogni porta). Certo quel che sai – perché ancora qualcosa sai – è che la vocazione non è l’autodifesa di una biografia, perché se hai sempre pensato che quella fosse la tua chiamata domani potrai scoprire che te ne viene rivolta una diversa. Oppure sperimenti anche a rischio dello straniamento che le vocazioni possono essere multiple e contestuali, tanto plurali a volte da sembrare contraddittorie, e che forse si risolveranno solo in seguito, magari innestandosi l’una sull’altra. Gli innesti: perché non sai molto della vocazione, ma ne sai la metafora più antica e potente, la cura del giardino. Non il frutto in me ma far fruttare quel che c’è intorno, occorra potare, arare con fatica o decidere di dare il diserbante e a lungo e per un po’ non far crescere, anche se spesso siamo più propensi ad aspettare sotto una pianta maledicendo lei e quelli a cui si è mandati. E allora ricordi che la vocazione non è la tua.

Pensare alla vocazione che Dio mi rivolge è tornare a riflettere su cosa sia verità e sulla domanda di giustizia che ho per me e gli altri: dunque cartina di tornasole della mia infedeltà. Guardo però alla vocazione che Dio dà a se stesso in Cristo, a quel patto stabile su cui ogni chiamata si fonda: dunque la mia non è nient’altro che un fragile ma sicuro «Sì ed Amen» a una parola di grazia.

Simone Maghenzani

 (Da “Riforma” del 16 marzo 2012)
Marzo 15, 2012